Ricevi questa newsletter perché sei iscritto a La moda, il sabato mattina di Federica Salto. Pitch Perfect è uno spin-off che ospita altre firme del giornalismo di moda (e dintorni) e oggi è stato scritto da Matilda Ferraris che si descrive così: ho ventitré anni, studio Editoria e “da grande” vorrei fare la giornalista occupandomi di cultura e società; della moda mi interessa il rapporto che si crea tra individui e abiti, in particolare il meccanismo che porta i vestiti a diventare simboli fondamentali per la costruzione della propria identità.
Tutte le pellicce sono delle nonne
Sono ferma alla banchina del tram aspettando invano che passi, fa freddo e c’è sciopero. Si avvicina un signore sulla settantina, canuto, cappotto nero e scarpe lucide, mi guarda e domanda se ci sia uno sciopero, io annuisco e dico banalità per continuare la conversazione. Qualche minuto di chiacchiere e scopriamo di avere la medesima destinazione: il quartiere Vigentino, decidiamo di incamminarci a piedi. Egli mi racconta di sé per mezzo del lavoro che faceva, mi dice: “di mestiere stampavo libretti universitari, ma tu probabilmente non sai nemmeno cosa sono, sei troppo giovane”. Siamo a metà del tragitto quando ha ormai sviscerato molti aspetti salienti della sua biografia: il trasferimento da via Padova al “Vigentino” un quartiere “molto tranquillo, adatto alle famiglie, con una bella chiesa e vicino al verde”; le carriere dei due figli, fiero di entrambi, ma preoccupato per uno dei due: il maggiore è medico e vive fuori Milano, dove esercita la professione, l’altro ha studiato filosofia e ora è educatore in una cooperativa, vive nella casa di via Padova che un tempo era del padre.
Quando gli chiedo che cosa lo avesse portato in centro quel pomeriggio mi risponde che era andato a ritirare le pellicce della moglie in una lavanderia di Viale Bligny. Le tiene saldamente all’interno di due buste nere, non le posso vedere ma poco importa perché le ho ben figurate in mente: quelle buste spalancano una finestra sull’armadio di mia nonna materna, che custodisce gelosamente la sua pelliccia di visone, e su quello di mia nonna paterna che ne rimpiange l’acquisto. Non solo, quella nella busta è la pelliccia di tutte le nonne del mondo, piccole e alto borghesi, simbolo di ricchezza, poi rivalsa, edonismo e sciurismo.
Dopo qualche minuto, io e il mio compagno di viaggio arriviamo di fronte casa sua, mentre mi congedo gli chiedo come si chiami, lui mi risponde dicendo prima il cognome, due volte, poi il nome: Sergio. Mi allontano e lo immagino a casa intento ad appendere con cura le pellicce della moglie nell’anta dell’armadio a loro dedicata.
Nei giorni a venire, sempre più freddi, sono tante le signore anziane che girano per le strade della città con indosso una pelliccia di visone; mi domando cosa accadrà quando anche loro, come hanno fatto già le mie nonne, riporranno la pelliccia nell’armadio senza trovare degli eredi. Quante saranno le pellicce che giaceranno impolverate nei ripostigli, schiacciate dal peso del loro simbolo?
Il capo, dalla tradizione secolare inizialmente appannaggio di soli ricchi, ha simboleggiato nel dopoguerra il segno della crescita e del benessere economico. Per qualche decennio è stato la concretizzazione di una stabilità ritrovata, di un ordine espresso sui pilastri famiglia e lavoro, quelli su cui il signor Sergio, come mi aveva fatto intendere, aveva fondato la sua vita.
Dopo il boom economico si forma un ceto medio che ha capitale da spendere in beni superflui, la pelliccia acquisisce un significato nuovo, certo non diventa di tutti, ma di tanti. Nonostante la sua diffusione continua ad attrarre donne di tutte le classi, poco rilevante chi le comprava da Fendi e chi no, era fondamentale il risultato: la pelliccia di visone era parte dell’armadio di Nancy Reagan, di mia nonna e della moglie del signor Sergio.
Quella nuvola di pelo, ancella dell’edonismo, ha donato eleganza e sofisticatezza alle donne che la indossavano e che ne sottolineavano l’autenticità a suon di “è vera”. Era quando ammettere di indossare un’eco pelliccia non significava fregiarsi d’esser sostenibili, ma povere.
Anche la pelliccia è poi tramontata, la vanità è stata vinta dall’etica e il suo processo produttivo è parso non più giustificabile. La pelliccia mostra apertamente la vanità e crudeltà che la connaturano, ed è per questo che forse è sempre stata oggetto di desiderio.
L’animalismo, inizialmente inviso ai couturier, ha raggiunto la massa (ma solo per la pelliccia perché le altre abitudini non sono granché cambiate) e i marchi si sono adeguati alla mutazione delle coscienze bandendo le pellicce dal mercato. Il risultato, eticamente ineccepibile, ha comportato che anche le pellicce di seconda mano fossero mal tollerate. Il capospalla ha assunto una connotazione identitaria ed è diventato difficile indossarlo senza sentirsi Crudelia Demon, senza che il solo atto di portarlo coincidesse con una dichiarazione programmatica d’intenti. Se ciò che indossiamo determina sempre più chi vogliamo essere, allora nulla è più deprecabile dell’ostentare una pelliccia di visone, anche se vintage. Che immagine mostreremmo di noi stessi?
Abdichiamo dunque alle pellicce della nonna e accogliamo le coloratissime eco-pellicce, più inquinanti, ma più presentabili agli occhi degli altri.
Mi chiamo Federica Salto, ho 32 anni e sono una giornalista. Dal 2020 ogni sabato mattina provo a collegare i puntini della moda con questa newsletter. Se non lo fai già e vuoi sostenerla (accedendo a più contenuti) passa alla versione premium.
📩 Iscriviti 🗃️ Archivio 📚 Risorse 📱 Io, su Instagram
Mi sembrava di avere visto un meme dove si diceva che i millennials vendono / regalano le loro pellicce e che la Gen Z invece ne fa bottino nei vintage
Il pezzo è scritto splendidamente, grazie Federica per aver concesso questo spazio a Matilda. Nel nostro contesto moderno, detesto le pellicce vere e ciò che rappresentano da un punto di vista sociale e morale. Mi fa sorridere quella loro agonizzante pretesa di eleganza, accompagnata dalla necessità di sbandierare il proprio status economico. Concordo sul fatto che valorizzare capi di seconda mano invece di cedere al fascino del nuovo sia auspicabile da un punto di vista ambientale, ma le pellicce vere proprio no, no e ancora no. Attendo il pezzo dove scriverete della rivoluzione delle eco-fur, magari con l'intervento di Rebecca Cappelli e una menzione al suo straordinario documentario SLAY.