#71 Chi influenza chi
Senza newsletter, senza Instagram e senza notizie: sei settimane dopo, eccomi qui, spero di esservi mancata, voi molto! Il mio sabato mattina ora è decisamente più articolato, tra pappe e sonnellini, ma sono anche pronta per ricominciare a conversare di moda. A dire il vero abbiamo già ricominciato domenica scorsa, grazie a Rivista Studio che mi ha voluta per un panel del suo Studio in Triennale; e grazie a chi c’era e a chi è passato per un saluto sul finale, ero molto emozionata e un po’ frastornata. Per questa prima newsletter di ripartenza ho preso in prestito il titolo proprio da quel panel, perché mi sembra che l’argomento sia più centrale che mai. Chi influenza chi? Ma anche, a che punto siamo arrivati dell’influencing, specialmente nella moda che ha fatto da apripista a tutto il resto? I genuinfluencer sono davvero la next big thing? Proviamo a capirci qualcosa.
Prima di cominciare ci tengo a lasciare qui un “grazie”, anche se mi dicono che ne dico troppi. Non è vero. Non era assolutamente scontato che voi abbonati rimaneste tutti qui ad aspettarmi. Quindi, GRAZIE 🧡 Ma anche… Preparatevi! Nel 2022 arriveranno un po’ di cose pensate per voi.
Influencer, chi? Forse ve ne siete accorti, rispetto a un paio di anni fa oggi è molto più difficile definire se qualcuno sia un influencer oppure no (anche perché è difficile stabilire dei parametri validi per tutti). I più facili da identificare sono naturalmente quelli che di “influencing” vivono e cioè che guadagnano direttamente dai propri contenuti in piattaforma. Alcuni di questi contenuti sono “editoriali”, spontanei e non vendono direttamente un prodotto, ma servono anche a tenere in piedi gli altri, quelli “pubblicitari”. Di quelli “pubblicitari” alcuni sono più diretti, altri invece tendono a inserirsi maggiormente nella narrazione editoriale e quindi a sembrare, anch’essi, spontanei. Sembrano spontanei ma non lo sono, ovviamente, perché sono concordati con il cliente di turno - ma questo non significa che non possano comunque essere interessanti e ben pensati per il target di pubblico a cui sono indirizzati.
Oltre lo sponsored by. Anche tra le fila degli influencer “classici”, comunque, le cose stanno cambiando. I grandi e grandissimi stanno puntando in massa sul merchandise, che sia proprio o in collaborazione con i brand. Da Chiara Ferragni in giù, infatti, è chiaro che vendere i propri diari di scuola, smalti o qualsiasi altra cosa sia molto più remunerativo che sponsorizzare quelli realizzati da terzi. Per molti altri che erano arrivati all’influencing da strade secondarie, invece, oggi l’idea di dipendere totalmente da quello fa paura. Esemplare è il percorso di Alyssa Coscarelli, che seguivo quando era editor di Refinery29 - sveglissima, i suoi contenuti erano sempre superiori di una spanna rispetto a quelli dei colleghi. Poi la sua fan base è cresciuta e lei si è licenziata per vivere di Instagram, fino a pochi mesi fa, quando ha accettato il ruolo di director of partnerships per la piattaforma Emcee. Relativamente a questa tendenza entrano in gioco tanti fattori, due in particolare. Il primo è la consapevolezza da parte di tanti influencer che la crescita non sia infinita (spesso i profili raggiungono un tetto di pubblico e quello resta). Il secondo è una sensazione diffusa di dipendenza dalle piattaforme e dagli algoritmi, con vari gradi di conseguenza tra detox digitali e burnout.
Chi altro influenza. Poi ci sono le figure più ibride, giornalisti, artisti, autori, stylist, attivisti, divulgatori. Molti di questi - compresa la sottoscritta - hanno cominciato a utilizzare le piattaforme social per veicolare il proprio lavoro verso un pubblico diverso da quello tradizionale. Soffermiamoci sul caso del giornalista, visto che è quello che conosco meglio. Qui si trovano vari approcci, da chi screenshotta i propri pezzi e li condivide sui social, chi ha aperto un progetto editoriale personale (come questa newsletter), chi crea contenuti originali per Instagram o TikTok o Twitter. Potrei stare a scriverne per ore e magari una volta ci sarà occasione, ma torniamo al punto di oggi. Il giornalista è un influencer? In fondo il suo mestiere è sempre stato quello di muovere le opinioni (e magari i comportamenti d’acquisto) del pubblico, solo che ora ha un contatto più diretto. La sua capacità di influenza, poi, è particolarmente sentita nella moda che, l’abbiamo detto tante volte, è contemporaneamente creatività e business, design e commercio, arte e prodotto. Peccato che il giornalismo di moda debba muoversi dentro uno stretto rapporto di dipendenza con i brand, e questo riguarda tutte le testate, più o meno indipendenti, e tutti i redattori, giornalisti, stylist, ognuno dei quali regola il proprio rapporto in base a scelte personali.
Analisi batte critica. Dunque, il dubbio sulla possibilità di esercitare una critica davvero imparziale è stato uno dei punti centrali del dibattito di domenica scorsa. Da una parte c’è il gusto personale: il giornalista dovrebbe sempre metterlo da parte nel giudicare una sfilata, una collezione, un capo di abbigliamento, limitandosi a fornire al lettore le informazioni per comprendere quella sfilata, quella collezione, quel capo di abbigliamento e giudicarlo in base ai propri di gusti. Dall’altra c’è quel rapporto di dipendenza sopracitato, da cui spesso è difficile allontanarsi, anche quando si è in buona fede. Dunque, il giornalismo di moda è pieno di difetti e la critica è la sua sfaccettatura più imperfetta. Ma questo non significa che per esempio le recensioni degli show siano inutili, anzi: quel tipo di contenuto, creato da un giornalista che ha avuto accesso all’evento, a un colloquio diretto con il designer, a vedere i vestiti da vicino ed è corredato da foto e video in diretta è indispensabile perché fornisce informazioni esclusive. E sui social può diventare occasione di scambio e di interazione con il pubblico. Non credo però che sia il contenuto in cui vada ricercata la famosa oggettività, mentre mi capita spesso di trovare un approccio molto libero e originale in altre tipologie di pezzi, come analisi e longform, magari sulle stesse testate e firmate dagli stessi giornalisti.
Una nota a margine. Questo è proprio il motivo per cui ho deciso di impostare in questo modo il mio lavoro, tra questa newsletter e il mio account Instagram. Preferisco unire i puntini di storie diverse, provando a fornire strumenti e informazioni per chiavi di lettura non banali, piuttosto che recensire il singolo evento o sfilata. Lascio a voi dire se un designer sia un genio oppure no, una collezione grandiosa o da dimenticare. Anche se farlo mi diverte e ovviamente non mi tiro indietro davanti allo sport nazionale di chi lavora nella moda, e cioè passare ore a commentare sfilate e collezioni tra colleghi, ovviamente senza mai trovarsi d’accordo.
Torniamo al punto. Mi sono soffermata sul tema del giornalista per rendere chiaro un aspetto importante anche per tutto il resto del calderone. Il lettore, l’utente, è totalmente saturo di un’informazione fatta male, figuriamoci di una pubblicità che non gli interessa. In fondo non importa chi produce il contenuto, se ha un tesserino o se sulla carta d’identità ha scritto “influencer”. Importa invece la qualità del contenuto che propone. Avete mai fatto caso a quanto fastidio provate quando un influencer che seguite sponsorizza un prodotto che non vi interessa? O quando vi rendete conto che un giornalista o un divulgatore ha fornito un’informazione sbagliata e non si corregge? Il 2020 e la pandemia avranno anche generato una nuova ondata di contenuti, ma ci hanno anche portati un po’ tutti alla saturazione. Continuiamo a scrollare, sfogliare, leggere. Siamo diventati più elastici: abbiamo cominciato ad ascoltare le notizie del giorno in un podcast che esce alle 8 del mattino, ad ascoltare il commento a una sfilata in diretta, a leggere longform che richiedono diversi minuti su argomenti lontani dal nostro solito tracciato. Siamo anche molto più ben disposti a pagare, purché tutto questo meccanismo sia funzionale e piacevole. Ma il grande problema è che non abbiamo tempo. E quindi ci serve un ulteriore filtro, una garanzia di qualità. È per questo che si comincia a parlare tanto di genuinfluencer, persone che non hanno nessun interesse economico nel promuovere ciò che promuovono, che si tratti di informazioni o di prodotti. Esistono davvero o sono un eufemismo? Bella domanda, proveremo a rispondere nei prossimi mesi. Perché la moda, che ha scoperto gli influencer prima di tutti gli altri, ora è davvero pronta per il prossimo step.
VIRGIL ABLOH
Impossibile ridurre la notizia della sua morte al link a un pezzo. Ho pensato quindi di fare una selezione e spero possa essere utile a chi vuole sapere di più su di lui e sul suo lavoro, che ha davvero cambiato la moda. O anche a chi vuole semplicemente ricordarlo.
Virgil Abloh, ambasciatore e infiltrato (New York Times)
Virgil Abloh ha cambiato il mondo (Rivista Studio)
Qualcuno ha chiesto a Virgil Abloh di poter pubblicare gli screenshot dei suoi messaggi? (Now I Get It)
Virgil Abloh ha realizzato i suoi sogni più selvaggi (Complex)
La storia dietro a un momento iconico della Paris Fashion Week (Vogue)
Lezione di Virgil Abloh ad Harvard 👇🏻
PEZZI BELLI DELLA SETTIMANA
Anche se COP26 si è concluso da qualche settimana non è troppo tardi per leggere un riassuntone dei temi legati all’industria della moda (NYT)
Aspettando House of Gucci, Daria Bignardi ha condiviso un’intervista a Patrizia Reggiani di 20 anni fa, oltre che un piccolo pezzo dell’editoria femminile italiana (Facebook, post del 14 novembre)
Voi probabilmente li conoscete già, i nostri giovani designer. Ma il fatto che una testata internazionale ne abbia parlato è importante, quindi diamo loro un po’ di click (Financial Times)
La meravigliosa casa di John Galliano nel nord della Francia (Vogue)
MODA DA GUARDARE, VEDERE E ASCOLTARE
Hulu ha fatto un documentario sulla storia di Von Dutch. Sì, il marchio di cappellini tamarri famosi negli anni 2000 (il mio ero bianco e rosa)
La campagna holiday di Prada, con Los Angeles sotto la neve 👇🏻
Come le altre testate Condé Nast, anche GQ sta subendo parecchi cambiamenti (ultimo in ordine cronologico, @pam_boy è stato nominato head of content della versione francese). E i servizi moda fanno volare, come questo con Dennis Rodman protagonista
SHOPPING LIST
Un maglione polo da donna e una giacca pile da uomo dalla nuova capsule collection di JW Anderson x Uniqlo; una sciarpa mantella di Barbour; due collane con ciondolo, una di Gala Rotelli e una di Lil Milan
Confermo tutti i consigli di shopping per le neomamme e aggiungo un paio di brand scoperti recentemente: Carrément Beau e Ludò. Eliot invece è un marchio di abbigliamento in bamboo per il post parto
Su Amazon trovate le liste dei miei libri preferiti, in continuo aggiornamento
SCUOLA E LAVORO
SUNNEI cerca un head of content, Gucci un digital content specialist, Valentino un digital content specialist
Mi manca Slack? No, non mi manca. Ecco perché (Siamo Mine)
E così abbiamo ricominciato, ed è tornata anche la solita sensazione di soddisfazione quando scrivo l’ultima frase e mi accorgo di aver messo in fila tutto quello che mi girava per la testa. Ci risentiamo mercoledì con l’appuntamento dedicato allo shopping, preparatevi per le idee regalo di Natale 🎅🏼
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