#57 Instagram si è rotto?
Non ero mai stata intervistata prima di qualche mese fa, ma avevo già fatto io molte interviste, per cui ero consapevole di quanto possa sembrare facile e invece non lo è affatto. È uscita ieri la mia intervista su Ellissi, la newsletter sul futuro dei media di Valerio Bassan che, come vi avevo raccontato qualche settimana fa, mi ha fatto un po’ da guida in questi mesi. Abbiamo parlato di come sta andando questa di newsletter, ma anche di come è cambiato il panorama che ci circonda negli ultimi mesi. Penso possa interessare a chiunque si sia appassionato a La moda, il sabato mattina, specialmente a chi in questi quasi due mesi di versione premium ha deciso di supportarmi economicamente e a chi, semplicemente, vuole capire un po’ come vanno le cose nell’ambiente in cui lavoro.
Tutto questo per dire che una buona intervista è quella che porta l’intervistato a fare delle riflessioni inaspettate. Rispondendo alle domande di Valerio mi sono resa conto che la newsletter mi ha portata a conoscermi di più come professionista: da un anno ogni giovedì mi confronto con una marea di notizie possibili, tagli e opinioni e scelgo di approfondire quella che penso faccia più per me e per chi mi legge. Avevo già qualche sospetto, ma a mani basse oggi posso dire che quando si parla di moda + Instagram (e social in generale), io non resisto. Osservare come si muovono sulla piattaforma i singoli protagonisti - che siano i brand o addetti ai lavori - mi sembra centrale per provare a comprendere i macro e micro cambiamenti dell’intera industria. Quindi oggi ne riparliamo e non perché io sia particolarmente fan di Instagram, anzi, lavorandoci do tempo, sia per iO Donna che con il mio account personale, spesso lo trovo in molti casi limitato e limitante, soprattutto per i brand (o più in generale per i profili business). Ma proviamo a capirci di più.
Tutto nasce da un report di Vogue Business su quanto i marchi di moda hanno postato su Instagram durante la pandemia (da ottobre 2020 a marzo 2021): la media è del 12% in meno, con Dolce&Gabbana, Prada e Versace che hanno ridotto la pubblicazione nel feed di un terzo e Burberry del 38%. Ci sono diversi motivi che possono aver determinato questa scelta:
il generale calo degli acquisti e dell’interesse da parte dei consumatori nei confronti di prodotti che non potevano indossare, viste le restrizioni
il focus su formati diversi da quelli del feed su Instagram, in particolare stories, IGTV e reels (sulle guide non ci sono dati)
l’investimento su contenuti nei feed di terzi (si pensi al lancio di Givenchy by Matthew Williams, con decine di celeb che postavano selfie nei capi della prima collezione, ma anche a tutti i lanci prodotto con gli influencer)
la deviazione e la sperimentazione su altri social network, primo tra tutti TikTok e, solo per qualche settimana, Clubhouse
l’investimento di energie e di risorse su progetti di comunicazione diversi, per esempio i podcast
Nel pezzo su Vogue Business Dina Fierro, vicepresidente di Nars Cosmetics, dice una cosa interessante, e cioè che il 2020 è stato il vero anno di svolta per TikTok: i marchi hanno potuto riscontrare coinvolgimenti organici, cosa che su Instagram è diventata praticamente impossibile. Lì, infatti, il tasso di coinvolgimento medio per post di è dello 0,65%. Questo significa che un brand può decidere di impostare una strategia più o meno sensata, produrre dei contenuti più o meno interessanti, gestire la sua community con più o meno intelligenza, ma che non è detto che questo - nel bene o nel male - semplicemente arrivi nello smartphone di chi lo segue. Assurdo, vero? Facciamo un esempio pratico.
L’account Instagram di Chloè conta 9,4 milioni di follower: è altamente improbabile che siano tutti “reali”, perché come vi ricorderete l’era dei bot e dei followforfollow è solo appena finita. Il brand sta portando avanti un’attenta operazione di rebranding proprio su Instagram che precede il debutto nei negozi della prima collezione disegnata dalla nuova direttrice creativa, Gabriela Hearst, conosciuta per essere particolarmente attenta al tema della sostenibilità. Beh, degli ultimi nove post quello che ha totalizzato più like, con il tramonto e le palme, ne conta 5259, quello che ne ha totalizzato meno, il sentiero tra le rocce, 2045. Significa che il post con più like è piaciuto allo 0.06% del pubblico complessivo dell’account, quello con meno like allo 0.02% (ok, le mie competenze in matematica si fermano qui).
Si potrebbe obiettare che forse, semplicemente, quei contenuti non piacciono al pubblico. Ma non mi sembrava possibile, e quindi ho fatto una prova utilizzando un tool che fornisce informazioni su quali sono i post che hanno sviluppato maggior coinvolgimento.su una selezione di account (sono circa 3500, ci sono praticamente tutti i brand del mondo ma anche celeb, influencer, media company, tutto ed è la mia personale ossessione, come potrete immaginare. Importante, la classifica non decide chi è andato meglio in base ai numeri assoluti, ma all’andamento degli altri post di quell’account. Togliendo le sponsorizzate, l’unico post di un brand tra i primi 50 è questo e capite che però si gioca un’altra partita. Giusto per soddisfare un po’ di curiosità, ha fatto faville il post di Joelle Diderich, Paris bureau chief di WWD, con Anya Taylor-Joy e Cara Delevingne da Dior: più di 5000 like, e bisogna considerare che è un post video (mediamente prendono meno like di quelli fotografici) e che lei ha 4179 follower: se l’avesse postato Dior quel contenuto avrebbe raccolto lo stesso coinvolgimento? (Altri protagonisti delle classifica della settimana sono i contenuti dei Måneskin che, grazie all’Eurovision, si sono portati a casa 2 milioni e mezzo di follower in più questo mese. E che Simon sia con voi ✈️)
Una storia diversa ma che rientra in questo tema è quella di Bottega Veneta: a gennaio il brand guidato da Daniel Lee ha cancellato i propri account per provare a riposizionarsi (nessuno oggi nel lusso vuole essere il brand delle influencer) e sfruttare solamente l’amplificazione di un certo tipo di personaggi, ovviamente super veicolati dal brand stesso. Nel quadro di questa strategia è uscito questa settimana l’Issue 2, una specie di presentazione animata online stracolma di contenuti visuali fortissimi, con fotografi e celebrities. Non avere un account o organizzare eventi top secret, dunque, non corrisponde a non avere un interesse nel fare girare le proprie immagini. Il problema è che il risultato è un hashtag (#BottegaVeneta) strapieno di contenuti che non c’entrano niente, mentre quello ufficiale del progetto (#IssuedByBottega) conta solo 313 post e tutti con risultati piuttosto bassi. Ce ne saranno altri senza hashtag, senz’altro, ma è chiaro che è molto difficile per un brand, per quanto in buona salute, gestire la propria comunicazione con così poco controllo sui contenuti e in generale sulla propria presenza nella piattaforma.
Non scopriamo oggi che Instagram è costruito per indurci a creare più contenuti, per rincorrere il nostro pubblico e che se lo facciamo con un approccio polemico o ostile le nostre possibilità aumentano. Vale per tutti gli account e lo dicevamo settimana scorsa che in questo modo sta facendo esaurire un sacco di persone. Per ora i brand ne hanno bisogno ma, a differenza dei creator, bisogna ricordare che non si portano dietro un coinvolgimento emotivo. Insomma, la moda sta su Instagram nel momento in cui starci gli è utile, ma se Instagram diventa solo un dispendio di soldi e di energie, appena si figurerà un’alternativa reale, non ci penserà due volte a voltare i tacchi. È questo il problema più grande di Zuck, Mosseri e compagnia bella: la lezione di Facebook non gli è servita per comprendere che l’equilibrio tra soddisfazione e frustrazione è fondamentale per il funzionamento delle loro app. Se ci rifilano, invece, un social in cui le aziende non riescono a connettersi con le persone e le persone sono bombardate solo dai contenuti aggressivi e giudicanti faremo tutti in fretta a disinnamorarci.
Oggi proviamo in versione mega/mix, perché dopo un po’ le categorie mi fanno allergia🦦
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Il crop top maschile non si è visto per la prima volta nella collezione primavera estate 2021 di Fendi, Kettj Talon ne racconta la storia su NSS
Telfar Clemens ha disegnato la divise della squadra olimpica liberiana 🔥 scrive Vanessa Friedman sul NYT
Ogni tanto torno con le mie pillole di storia della moda, la storia dell’ugly chic di Prada, cos’è e perché ci influenza ancora oggi
Polywork è un concetto di lavoro multiforme e vario, per cui non si è legati a una sola professione o a un solo datore di lavoro. Rappresenta un po’ l’evoluzione del freelance e, ovviamente, riguarda soprattutto Millennial e Gen Z. Ne parla Digiday
Collezioni belle e dove trovarle, Wales Bonner primavera estate 2022. Le foto e il video sono di Joshua Woods, lo styling di Tom Guinness
Vi è mancato il popolo della moda? Un po’ di street style dalla Milano Fashion Week
Tra i podcast che mi avete consigliato c’è Storie di brand, bella la puntata su The North Face
Ce le meritiamo le Birkenstock x Jil Sander? Io dico di sì, escono il 1 luglio (ma prezzoni, dai 350 ai 550)
Finalmente stiamo cominciando a processarlo: quello appena passato non è stato un anno sabbatico
Forse avete già sentito parlare di Anti-Fashion (qui il documentario), Bliss Foster ne ha riparlato sul suo canale YouTube
Non è moda ma interessante, Torcha cerca un social media manager
Vestiaire Collective cerca un pr assistant in stage a Parigi, Domingo Communication un social media specialist, ControLuce Video un junior producer, Stella McCartney un wholesale and franchise coordinator nothern europe
LVMH ha preso il controllo totale di Emilio Pucci e tutte le altre acquisizioni e fusioni della moda degli ultimi mesi, su The Fashion Law
Poteva essere diversa da così la casa di Cara Delevingne (pianoforte trasparente compreso)? ⬇️