Buon sabato mattina a chi c’è da ormai quasi tre anni, a chi è arrivato con il tempo e per chi è la prima volta ☕ Grazie Giulia (anche la sua newsletter è imperdibile) e grazie a tutti quelli che hanno fatto passaparola! In questa puntata troverete, come sempre, quello che vi serve sapere dal mondo della moda, un riassuntone della settimana declinato in link e riflessioni. Siete in 23.000 dall’altra parte e mi sembra ancora incredibile. E un grazie doppio e triplo a chi sceglie di supportare me e il mio lavoro passando alla versione premium, che costa 5 euro al mese o 50 euro all’anno e dà l’accesso a una serie di contenuti extra, come l’appuntamento mensile sullo shopping e l’accesso alle mie risorse, liste di corsi, letture e non solo. Senza di voi questo sarebbe rimasto solo un progetto da lockdown. Se non l’hai già fatto 👇🏻
Eccoci a noi e abbiamo un sacco di cose da dirci. Il fashion month si è concluso martedì con la bella sfilata di Miu Miu - per i nuovi, ogni tanto accosto qualche aggettivo a brand e prodotti ma in generale cerco di starmene più nell’angolo possibile e lasciarvi liberi di formarvi un vostro giudizio sulle cose, poi mi direte se funziona. Settimana scorsa ho elencato le mie sfilate preferite dalla Milano Fashion Week, giusto per non contraddirci. Poi, una polemicona giornalisti-creators che fa tanto 2010 e che comunque è tutta una roba di gente che sta su Instagram, andate a dirlo ai TikToker che non possono fare i critici (a proposito, qui un po’ di alternative-fashion-critics). E ancora, un sacco di tecnologia utilizzata come strumento per la viralità, a partire dai cani di Boston Dynamics con cui Coperni ha provato a fare la doppietta dopo lo spray dress dello scorso settembre.
Se da una parte gli abiti sono stati ovunque più portabili, più vicini alla realtà (ne ho parlato approfonditamente qui), dall’altra, appunto, sembrano non bastare a nessuno. Colpa o merito della pandemia e dei lockdown che hanno fatto sì che le sfilate, eventi nati e strutturati per adempiere a un servizio, quello di fornire le informazioni necessarie sulle nuove collezioni agli addetti ai lavori, assumessero un’ulteriore funzione, quella di catalizzatori dell’attenzione del pubblico (e quindi dei consumatori), tutto filtrato tramite algoritmi di cui i brand non hanno controllo. Facile, no? E infatti fuori c’è un gran casino: tecnologia, dicevamo, ma anche trovate scenografiche più o meno efficaci e, ovviamente, ospiti.

Tralasciando le varie Zendaya, Anne Hathaway e compagnia bella, che già da sole procurano gran visibilità ai brand con la loro presenza in first row, il vero fenomeno di questa stagione è stato il definitivo sodalizio tra moda europea e cultura coreana, kpop e dintorni. Piccola parentesi: interessante anche il ritorno della Cina alle fashion week, ne ha scritto Federica Caiazzo, da recuperare qui. Ma veniamo a noi. E introduciamo Silvia Schirinzi, bff, fashion director di Rivista Studio e appassionatissima del tema. Le ho fatto le domande che mi sono posta in queste settimane di apparizioni teatrali di RM, Jeno, Jiisoo e così via. Intanto, se avete bisogno di un bigino, due link utili: l’ultima newsletter firmata proprio da Silvia sul tema e l’identikit degli idols del K-pop di Giorgia Feroldi. Ok, partiamo.
Ciao Silvia e grazie di essere qui con noi ❤️ Come ti sei appassionata alla cultura coreana e come e dove ti informi a proposito?
Ciao! Ci tengo a chiarire che la mia passione per il K-pop è del tutto personale e non lavorativa: all’inizio degli anni Dieci ho scoperto i BigBang e G-Dragon e da lì ho iniziato a interessarmi al fenomeno. Come molti Millennial, conoscevo i grandi capolavori del cinema coreano d’autore dei primi anni Duemila (la trilogia della vendetta di Park Chan-wook, ad esempio, Memories of a Murder di Bong Joon-ho, Ferro 3 – La casa vuota e Time di Kim Ki-duk, tutti film che avevo amato moltissimo) e scoprire l’industria musicale mi ha permesso di esplorare un altro aspetto del movimento culturale e creativo della Corea del Sud. In particolare, mi aveva colpito la capacità di G-Dragon di “svecchiare” l’immagine di Chanel, di cui era diventato il primo testimonial coreano (Karl Lagerfeld la sapeva lunga), e in generale la spericolatezza dei suoi look. Lavoravo da pochissimo nella moda, ma mi sembrava evidente l’impatto delle star coreane: appassionato di arte contemporanea e design, GD aveva la sua collaborazione in pianta stabile con Nike (ancora attiva), il suo marchio (Peaceminusone) ed era uno dei taste-maker che finiva in tutte le liste di HypeBeast, HighSnobiety e Complex accanto a nomi del calibro di Kanye West, Pharrell o A$AP Rocky. Così ho iniziato a leggere le notizie sulla Corea del Sud disponibili in inglese e nel tempo ho trovato diversi giornalisti, coreani e non, che mi hanno aiutato a comprendere un Paese lontanissimo dal mio. Se dovessi consigliare chi seguire, direi che si può iniziare su Twitter con persone come Hyunsu Yim, corrispondente Reuters a Seul, Raphael Rashid, giornalista freelance e magari iscriversi a The Blue Roof, newsletter che parla di politica coreana (che incredibilmente ricorda, per certi versi, le storture di quella italiana). Tra i giornalisti italiani sicuramente Simone Pieranni di Chora Media e Giulia Pompili del Foglio, le migliori voci sull’Asia orientale nel nostro Paese. Se invece cercate hard-news sull’entertainment coreano ci sono piattaforme come Soompi, ma il mio consiglio è di provare a capirci di più della cultura del Paese per comprenderne lo star system.
Per chi non conosce questa cultura ma ha frequentato le sfilate è stato stupefacente vedere il seguito che hanno gli idols in Europa. Quanto è grande il fenomeno da noi e da cosa è guidato?
Questa stagione mi sembra che tutti si siano finalmente accorti del potere del K-pop e in generale delle star coreane, anche se clamorosamente in ritardo. Prada credo che sia stato l’esempio più lampante. Per gli Enhypen fuori dalla Fondazione, a gennaio, c’erano migliaia di ragazze e ragazzi e la scena era surreale: gli invitati che uscivano dalla sfilata fotografavano la gente in strada, l’entusiasmo era palpabile. Prada è un marchio che ha investito massicciamente, da anni, non solo sullo star system coreano, pensa ad esempio all’attore Song Kang, star di serie come Nevertheless e Sweet Home, ma anche anche su quello cinese e thailandese, vedi l'amatissimo Metawin Opas-iamkajorn, e i risultati si vedono: la loro comunicazione su quei mercati non ha sbagliato un colpo. Per quanto riguarda i fandom italiani, ce ne sono molti e sono molto attivi, in primis quello dei BTS (basta farsi un giro su Twitter e TikTok, ci sono anche tante crew di ballo che si riuniscono nelle varie città italiane), come ha dimostrato anche l’accoglienza calorosissima riservata a RM, leader dei BTS, ospite e testimonial di Bottega Veneta. Ho avuto il piacere di chiacchierare online con tanti fan e con alcuni di loro è nata un’amicizia. La sera della sfilata di Bottega ero in taxi per raggiungere la location e mi è arrivato un messaggio di un’amica del tipo “RM è appena entrato sbrigatiiii” che mi ha messo un po’ di ansia di fare tardi ma mi ha fatto anche sorridere di cuore. Sono cresciuta sui forum delle band indie, capisco bene quel meccanismo per cui dalla passione comune nasce aggregazione tra persone fisicamente lontane tra loro. È un sentimento di community imbattibile ed è la forza del K-pop.
Quali sono le sfaccettature più importanti da conoscere e riconoscere?
Attualmente siamo nelle cosiddette quarta e quinta generazione del K-pop (per farti capire, i BigBang erano la seconda e i BTS la terza): l’onda lunga della Korean Wave, o Hallyu, inizia a metà degli anni Novanta quando il governo sudcoreano, a pochi anni dalla difficilissima transizione democratica, ha iniziato a investire nelle arti e a promuovere non solo la musica, ma tutte le industrie creative e culturali del Paese, dal cinema alla tv fino alla musica pop, dalla letteratura al beauty fino al settore gastronomico. La maggior parte degli idol e degli attori è laureata e ci sono college specializzati in canto, danza, recitazione. Non è un caso che Parasite di Bong Joon-ho sia il primo film non in lingua inglese a vincere l’Oscar come Miglior film, e non come Miglior film straniero: è il risultato di politiche intelligenti di soft power che hanno aiutato la Corea del Sud a diventare il centro propulsore di cultura che è oggi.
Con questo fashion month possiamo dire che il K-pop è diventato definitivamente mainstream?
Beh, direi di sì, che la cultura coreana compete sullo stesso piano di quella americana e per molti versi è oggi capace di generare molto più interesse e coinvolgimento, anche nei Paesi occidentali. Per allargare il discorso, pensa ad esempio alla nomination agli Oscar di RRR, il colossal d’azione del regista indiano S. S. Rajamouli la cui colonna sonora è diventata virale su TikTok in maniera organica: il pubblico globalizzato è sempre più affamato di punti di vista differenti rispetto a quello hollywoodiano. L’Occidente si sta sempre più aprendo a prodotti audiovisivi che già erano di enorme successo nel continente asiatico o, altro esempio, nei Paesi a maggioranza musulmana (mi vengono in mente le dizi, le serie tv turche, che spopolano anche in Italia): l’intrattenimento e la cultura pop non parlano più solo inglese e non credo sia un processo che si invertirà, anzi. Spesso sono i media che faticano a tracciare questi fenomeni e trattano tutto come fossero delle bizzarre novità, quando non lo sono: il K-pop era già di enorme successo in tutto il continente asiatico, l’industria cinematografica indiana è la più grande al mondo, la Turchia è seconda solo agli Stati Uniti per esportazione di serie tv, tanto vale ricordarlo a noi occidentali che ci pensiamo sempre al centro di tutto.
Quali brand hanno lavorato meglio e come?
Mi è piaciuta la scelta di Bottega Veneta e RM, un abbinamento che inizialmente mi ha sorpreso visto che il leader dei BTS era abbastanza “streetwear” nel modo in cui si vestiva ma i cui interessi culturali – è un appassionato di arte, letteratura e un grande sponsor dell’arte coreana nel mondo – si sposano invece bene con la direzione creativa di Matthieu Blazy (spero si sia fermato a guardare le opere incredibili che c’erano alla sfilata!). Anche Suga da Valentino è un fit perfetto: forse il più schivo e misterioso di tutti i BTS, è anche quello che si è dimostrato più attento alle tematiche dei diritti civili, cosa che sta molto a cuore a Pierpaolo Piccioli. Valentino è un altro marchio che ha lavorato benissimo con i testimonial coreani, dalla cantante Hwasa all’attrice Son Ye-jin, regina dei drama. Amo poi Song Kang da Prada: è l’incarnazione perfetta del menswear pradiano. Poi sì, oggi c’è la gara ad accaparrarsi l’idol di turno: è divertente e surreale come fenomeno da osservare. Credo però che i marchi debbano studiare bene le loro strategie e calarsi nelle dinamiche dello star system coreane per attuare partnership fruttuose: è facilissimo indispettire le loro fanbase.
Quelle con gli idols sono operazioni di branding oppure effettivamente convertono?
Hanno engagement e conversione che gli attori di Hollywood possono solo sognare. Le Blackpink, ad esempio, sono le regine del sold-out, come anche gli stessi BTS, e nelle loro carriere hanno “venduto”, anche involontariamente, di tutto, dal burrocacao al tè di Jung-kook fino alla collezione di KAI degli Exo per Gucci, ingegnata da Alessandro Michele: l’orsacchiotto gigante fuori dal negozio Gucci di Seul è stato instagrammatissimo e la collezione è andata a ruba, con grande dispiacere dei fan occidentali che non potevano acquistarla. Se negli anni Duemila Leonardo DiCaprio faceva di nascosto il testimonial nei Paesi orientali per fare cassa, detto in maniera brutale, per queste star essere un testimonial è un traguardo da raggiungere: significa portare lustro non solo a sé stessi e alla propria carriera, ma anche al proprio Paese e all’industria che si rappresenta. Motivo per cui i fan si spendono, letteralmente, a mostrare il loro supporto: sia online, sia dal vivo, che al momento dell’acquisto, almeno per chi può.
PEZZI BELLI DELLA SETTIMANA
Perché la gente della moda ama farsi foto al McDonald’s durante la fashion week (Dazed)
Quelli che comprano gli abiti di lusso per i bambini (The Cut)
MODA DA GUARDARE, LEGGERE E ASCOLTARE
Il test sull’invito cartamodello di Balenciaga (@peetahelm)
La prima intervista di Cara Delevingne dopo quelle foto 👇🏻
È nato un nuovo podcast sull’arte e si parla di intersezione con la moda, fantastico!
SCUOLA E LAVORO
Il Post ha aperto cinque stage, Will Media cerca content creator sui temi della sostenibilità, per candidarsi inviare un video di 1 minuto a people@willemdia.it con oggetto “i nuovi content creator di Will)
Fiorella Rubino cerca un copywriter da remoto, We Are Social un writer con esperienza tema travel, Bottega Veneta uno junior producer
Le date aggiornate degli open day delle scuole di moda (Vogue) E vi ricordo tutti i corsi post diploma e magistrali e master
Mi chiamo Federica Salto, ho 32 anni e sono una giornalista. Dal 2020 ogni sabato mattina provo a collegare i puntini della moda con questa newsletter. Se non lo fai già e vuoi sostenerla (accedendo a più contenuti) passa alla versione premium.
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Sono appassionata dalla cultura coreana e da anni osservo come sta arrivando in Occidente. Una cosa che mi dispiace con tante star testimonial di brand occidentali è che oramai nelle serie coreane che guardavo anche per scoprire designer coreani, non cu si sono più. Sempre di più si vedono star attori vestiti full da Prada, Chanel o altri brand che conosciamo già e appiatisce proprio la moda e il lavoro di stilista poiché non si tratta di più mettere insieme vari brand coreani ma di vestire le star con i vestit dei brand per cui sono ambasciatori. Mi dispiace che al livello di moda ci perdiamo la scoperta di designer coreani interessantissimi.
Super interessante questa incursione nel mondo coreano! Grazie!