Quando ero giovane (!!) tendevo a sfogliare una quantità infinita di giornali. Una volta qualcuno mi ha chiesto perché mi interessasse guardare un prodotto pieno di pubblicità. Non mi ricordo cosa ho risposto, ma so che all’epoca non vedevo quelle pagine come pubblicità, anzi. Per me erano elementi di creatività, tanto quanto i servizi fotografici che seguivano. In un modello di business come quello delle riviste di moda in cui ogni pagina di ADV richiedeva
un corrispettivo editoriale, l’importante era che i contenuti fossero belli, entusiasmanti, aspirazionali. A 17 anni non mi interessava minimamente se la pagina che stavo guardando fosse pubblicitaria o redazionale (anche se a un certo punto ho imparato a distinguerle), ma che mi restituissero una qualche emozione.
Dunque anche oggi raramente la pubblicità suscita in me un giudizio negativo a prescindere, proprio a causa di questo bagaglio culturale. Per molti, invece, pubblicità è immediatamente sinonimo di qualcosa di fastidioso, che vorrebbero evitare di trovarsi davanti. Giustamente, aggiungerei, visto il bombardamento quotidiano a cui siamo sottoposti e la qualità mediamente più bassa rispetto agli anni d’oro dell’ADV, di moda e non. I picchi li abbiamo raggiunti nel 2020, con la pandemia che aveva reso impossibile qualsiasi produzione e io e Json ridevamo a crepapelle per le pubblicità che precedevano il tg della sera su La7 (ci si divertiva con poco). Le pubblicità, semplicemente, non sono più quelle di una volta. Per un sacco di ragioni, ma la prima e la più importante è la diminuzione degli investimenti. In parole povere le aziende vogliono e possono spendere molti meno soldi per le pubblicità rispetto a vent’anni fa. Così c’è poca creatività e molta omologazione.
I soldi, tra l’altro, sono meno ovunque. Anche nei contenuti editoriali, quei servizi fotografici, che, allo stesso modo, sono meno creativi e più omologati (non tutti, naturalmente). C’entrano anche l’affanno del digitale, con le piattaforme che ti spingono a dover creare senza sosta, la resa minore sugli schermi delle fotografie, perché i formati sono molto più piccoli e i colori meno vivi, e uno shift culturale verso una fotografia meno artistica - perché le foto dei look tipo stile personale su Instagram fanno molti più like rispetto a quelle con velleità artistiche. Lo so, pare un discorso un po’ anziano, ma fatemici arrivare.
Arriviamo alle foto dei look. Eccoci qua, alla montagna di materiale fotografico prodotto quotidianamente con l’obiettivo di immortalare un outfit, mostrare il proprio stile, sfoggiare un nuovo capo o accessorio. Quanto è passato prima che i brand si accorgessero dell’enorme opportunità dell’influencer marketing? Un battito di ciglia, esatto. E così oggi siamo bombardati nuovamente, questa volta da una pubblicità diversa da quella tradizionale e diretta di uno spot televisivo di intimo, per esempio, ma comunque abbastanza palese. Decine di content creator che sponsorizzano nello stesso arco temporale lo stesso completo intimo, ognuno certamente interpretandolo con il proprio stile (più o meno, dai). Peccato che l’effetto sia lo stesso di una pubblicità tradizionale. Un post con l’hashtag #ADV, per quanto obbligatorio e corretto, infatti, genera nell’utente un senso di fastidio. Quest’ultimo in piattaforma si aspetta, come era agli albori della content creation ed è stato per brevissimo tempo, di fruire di contenuti gratuiti, spontanei, condivisi per il puro gusto di condividere qualcosa di bello della propria vita e del proprio armadio.
Ma diamo a Chiara quel che è di Chiara, almeno lei ci aggiunge un tocco di ironia, non lascia un post ADV lì, a esaurirsi da solo, ma è capace di sfruttarlo per creare ulteriore engagement. Scusate il tecnicismo ma questi argomenti nerd mi appassionano particolarmente.
Tra l’altro il rispetto delle regole per l’ADV è da sempre qualcosa di poco definito, nonostante le regole. Ci lamentiamo degli influencer che non segnalano contenuti palesemente sponsorizzati, ma così è sempre stato anche nella stampa (tradizionale e indipendente, fidatevi, funziona uguale per tutti) o per i look delle celebrities. Niente è davvero spontaneo, perché gli interessi e i rapporti tra chi lavora dietro le quinte interferiscono sempre nel risultato finale. Ecco perché amo l’affiliazione. È la mia forma di pubblicità preferita, oggi - lo so è un’espressione bizzarra, ma se mi state seguendo con il ragionamento capite che ci sta.
Ma come funziona l’affiliazione? I brand (o le piattaforme a cui si affidano i brand) forniscono i link (o un sistema per produrre link) che, rispetto ai normali link di prodotti in vendita su pagine internet, hanno un qualche carattere in più all’interno della URL. Questi consentono il loro tracciamento. Se per esempio io dovessi mettere qui un link affiliato, il fatto che la sua URL sia così caratterizzata permetterebbe al brand (o alla piattaforma) di riconoscerlo e di avere una visione delle eventuali vendite che si generano da quello stesso link. Quindi, se uno di voi o più dovesse accedere a un prodotto attraverso quel link, comprarlo o comprarne un altro qualsiasi in vendita sullo stesso sito, io percepirei un guadagno in base a una percentuale accordata precedentemente sul prezzo di vendita.
Ecco, come voi sapete in questa newsletter non c’è affiliazione. Le ragioni sono diverse, ho scelto di provare a far funzionare il progetto con un modello di business basato sugli abbonamenti (spoiler, funziona!). Mi sono detta che se ci fossi riuscita avrei potuto scegliere più liberamente di cosa parlare e così sta andando. Tra l’altro per i giornalisti l’affiliazione è un po’ una zona grigia, perché non è pubblicità diretta, certo, ma consiste comunque nella promozione di uno o più prodotti (o servizi). L’esempio più virtuoso in Italia è Consumismi de Il Post, ma è solo una piccola goccia in un mare oggi dominato invece dai content creator che, giustamente, non hanno regole vecchie come il mondo da seguire. In una puntata di Breaking Italy ha parlato di questi temi in modo chiaro come al solito Francesco Costa, dall’accesso alla professione agli aspetti più complicati dei progetti editoriali personali. La metto qui 👇🏻
Giornalismo e i suoi contorsionismi a parte, appunto, l’affiliazione è la pubblicità più spontanea che ci sia - oggi. Perché il content creator che la propone ha una vasta gamma di prodotti tra cui scegliere. Torniamo all’esempio del famoso brand di intimo che ha una collezione di Natale da spingere, quattro mutande e quattro reggiseni, that’s it. Quando questo brand stringe un accordo commerciale con una creator per il post ADV spesso e volentieri è lo stesso brand a scegliere quale tra quei prodotti inviare per la realizzazione del contenuto. In pratica il contributo della creator è quasi nullo e il fatto che il contenuto che deriva da questo accordo sia d’interesse per gli utenti che la seguono deriva solo da un qualche tipo di affinità tra lei e il brand (e quindi, teoricamente, tra i suoi follower e il brand), ma si ferma quasi sempre qui. Se invece quello stesso brand stringe un accordo di affiliazione con la stessa creator, magari inviandole periodicamente una selezione del suo prodotto perché possa provarlo (un costo abbastanza irrisorio per un’azienda, ecco il perché di tutti i #giftedby che vediamo in giro), lei sarà poi libera di scegliere quali prodotti consigliare, magari con un’attenzione particolare alla famosa collezione di Natale, ma non per forza. Pensiamo allo stesso procedimento con un e-commerce multibrand, che vende centinaia di prodotti diversi di marchi diversi. Lì il grado di libertà è ancora maggiore.
Poi il problema sta nella tendenza all‘Iperconsumo: è chiaro che un creator si sentirà invogliato a proporre più prodotti possibile per aumentare le sue opportunità di guadagno. E si torna sempre al buon senso. Sono andata lunghissima, mi rendo conto. Ma ora ditemi e poi vi lascio:
PEZZI BELLI DELLA SETTIMANA
6 motivi per entusiasmarsi alla moda nel 2023. Sì, c’è di nuovo il ritorno di Phoebe Philo (NYT)
Le it-girls sono scomparse, si dice qui a causa dei social (RUSSH) Ma anche vent’anni fa ci si chiedeva dove si fossero cacciate (NYT)
L’identikit del maranza è qui per tutti noi (Zio)
MODA DA GUARDARE, LEGGERE E ASCOLTARE
È uscito un documentario celebrativo su Colette, lo storico concept store parigino chiuso nel 2017 (Colette Mon Amour)
18 look che ci ricordano quanto Tim Burton abbia già influenzato la moda, prima di Wednesday (Vogue)
Ma i registi testimonial nella nuova campagna di Saint Laurent? Stupendi 👇🏻
SHOPPING LIST
La Confcommercio ha scritto che gli italiani spenderanno in media 133 euro per i saldi… Facile con il lusso 🥲 Ed ecco qui: un costume che mi dicono molto fittante, una gonna lunga di jeans, un abito di una celebre collaborazione, una camicia in popeline
Prosegue il mio viaggio verso un capsule wardrobe soddisfacente. Puntata dedicata agli orecchini
SCUOLA E LAVORO
Zegna cerca un social media manager, SUNNEI un content manager, Santoni un copywriter, Valentino un influencer relation specialist
Uno strumento utilissimo per sapere quanto pagano le testate per contenuti giornalistici (Lo spioncino dei freelance)
👋🏻 Sono Federica Salto, ho 32 anni e faccio la giornalista. La moda, il sabato mattina è nata il 2 maggio 2020 e ogni settimana propone tutto quello che vi serve sapere della moda (e anche qualcosa di più). Se non lo hai già fatto e vuoi sostenere il mio lavoro 🌹
Ciao Federica! Grazie come sempre per la newsletter, ne approfitto per argomentare la mia risposta:
Secondo me la meno fastidiosa è il classico adv, per il semplice fatto che comprendo che il creator abbia bisogno di guadagnare, ci butta lì l’Adv e io sono libera di ignorare o approfondire (ovviamente di per scontato il seguire creator con una certa coerenza, e non chi sponsorizza la qualunque). L’affiliazione la trovo un po’ “pesante” perché noto una forzatura, una continua ripetizione del contenuto e della piattaforma su cui trovarlo. Ma io sono io eh 🤣