Ricevi questa newsletter perché sei iscritto a La moda, il sabato mattina di Federica Salto. Pitch Perfect è uno spin-off che ospita altre firme del giornalismo di moda (e dintorni) e oggi è stato scritto da Linda Terrafino, che si descrive così: «26 anni, una laurea in Lettere, da sempre alla ricerca delle parole giuste. Sono nata in Romagna e dopo aver girovagato un po' ho capito che non posso vivere lontana dal mare. Quando scrivo mi piace trovare collegamenti tra mondi all'apparenza lontani e indagare la contemporaneità attraverso la cultura pop».
La letteratura non è mai stata così di moda
Qualche anno fa, quando ancora frequentavo l’università, sono andata alla presentazione di quello che all’epoca era l’ultimo libro di Zadie Smith, Feel free. Smith dal vivo confermò l’idea che mi ero fatta leggendo i suoi saggi: una persona brillante, divertente, in grado di parlare con intelligenza delle canzoni di Justin Bieber quanto della svolta iperindividualista e gentificatrice di Manhattan. Più di tutto, però, mi colpì il suo abbigliamento, non tanto la scelta dei singoli abiti (il bellissimo turbante, il vestito colorato, i piccoli accessori), quanto la consapevolezza della sua presenza materiale nella stanza, la sensazione che il suo abbigliamento avesse un ruolo non secondario nella riflessione sulla contemporaneità al centro di quell’incontro.
Non mi era mai capitato di trovarmi davanti una scrittrice così sicura e consapevole della propria auto-rappresentazione attraverso la moda. Parlo non a caso al femminile perché è noto che le scrittrici abbiano dovuto lottare per ricavarsi uno spazio all’interno del campo letterario, tradizionalmente di dominio maschile, e spesso si siano dovute conformare allo stereotipo dell’intellettuale che considera la moda qualcosa di frivolo pur di essere prese sul serio. Moda e letteratura all’apparenza non potrebbero essere più diverse: la prima crede nel potere estetico degli oggetti materiali, in grado di lasciare un segno nell’ambiente circostante, la seconda invece sfrutta il linguaggio per creare nuovi mondi interiori, astratti.
In realtà il loro legame è più stretto di quanto si possa pensare. Innanzitutto perché in letteratura l’abito si differenzia dagli altri oggetti all’interno della pagina scritta: come ha scritto Roland Barthes (Il senso della moda, 2006), l’abito aderisce al corpo dei personaggi, si muove con loro lungo l’arco della narrazione, diventa una figura plastica. Nei vestiti i personaggi inciampano, cadono, si muovono percependo la materialità della propria presenza nel mondo, come accade all’indimenticabile Mrs Dalloway di Virginia Woolf, che nel suo vestito verde-argento da sirena “possedeva il dono di essere, di esistere, di riassumere tutto nel momento che passava”, come “una creatura che galleggia nel proprio elemento” (traduzione di Nadia Fusini).
I vestiti, però, non soltanto seguono i personaggi letterari nelle loro avventure, ma fanno anche parte della vita delle scrittrici. Ne è la prova la mostra Poets in Vogue, che si tiene ora alla National Poetry Library di Londra, dove sono esposti i vestiti di diverse poetesse, tra cui Sylvia Plath e Anne Sexton. Anche le scrittrici, sembra suggerire la mostra, hanno il diritto di raccontarsi attraverso la moda. Non è un caso che quasi tutti i vestiti esposti siano delle riproduzioni, dunque non originali: ciò che conta è che abbiano contribuito a determinare una certa immagine delle poetesse, in alcuni casi diversa dall’idea che si erano fatti i lettori dalla sola lettura delle opere. La moda per alcune scrittrici è forse stato un tentativo per poter affermare di essere tante cose diverse, per fuggire da rappresentazioni mediatiche soffocanti e giudicanti. Si può rivoluzionare la poesia americana e scrivere di beauty per una rivista di moda, come nel caso di Sylvia Plath. Si può parlare di diritti delle donne e rivendicare la propria sensualità, come ha fatto Anne Sexton - bellissimo il vestito rosso esposto nella mostra, copia di quello indossato durante le performance poetiche.
Si può arrivare in finale al premio Strega e vestire Ferragamo, come è successo a Claudia Durastanti. Nata a New York da genitori sordi, trasferitasi in Basilicata da piccola e cresciuta a Londra, Durastanti ha raccontato la mancanza di un centro, di un punto fermo nella vita in un modo che è allo stesso tempo personale e generazionale, e forse questo l’ha portata ad andare oltre i confini della letteratura.
Si possono fare delle collaborazioni con marchi di moda, come nel caso di Ottessa Moshfegh, l’autrice de Il mio anno di riposo e oblio, che ha sfilato per Maryam Nassir Zadeh durante la New York Fashion Week 2022. Ammetto di avere una vera venerazione per Moshfegh. Quando guardo le sue interviste su YouTube mi pare di scorgere una somiglianza tra le sue scelte in fatto di vestiti (prevalenza di colori scuri, motivi geometrici, bluse smanicate, niente accessori) e il suo stile di scrittura: ci ritrovo la stessa freddezza cerebrale, la stessa tendenza all’astrazione, la predilezione per le zone oscure della vita che cerchiamo in tutti i modi di rimuovere durante la vita quotidiana. Quello che conta, nella letteratura come nella moda, è avere il coraggio di usare un nuovo linguaggio per raccontare la realtà, e Moshfegh a questo proposito ha stile da vendere.
Non a caso Moshfegh è una delle scrittrici preferite di Giada Biaggi, autrice che ama contaminare la scrittura con il mondo della moda. Biaggi è anche una comica, e forse proprio perché gioca con il fatto di essere presa poco sul serio può portare avanti un discorso complesso e stratificato sulla rappresentazione della donna intellettuale. Flirta con lo stereotipo che la vorrebbe, in quanto bionda e con un passato da modella, poco intelligente, veste Miu Miu nel booktrailer del suo primo romanzo. Parla di filosofi esistenziali francesi e intanto indossa occhiali da sole e lupetto nero sopra la minigonna durante i suoi spettacoli, in una parodia dell’intellettuale impegnato alla Pasolini. Su Instagram si diverte a fare la parte della radical chic dai tic nevrotici, in una recita dell’insostenibile pesantezza dell’essere.
La moda è forse l’unico fenomeno culturale capace di incidere su ambiti lontanissimi tra loro; grazie al suo rapporto privilegiato con il corpo è sempre sotto ai nostri occhi, in superficie. Giada Biaggi rivendica una superficialità profonda nella scrittura, che come lo schermo dei nostri telefoni nasconde altro dietro di sé. Non a caso nel suo romanzo la moda serve a raccontare una società che si è ormai votata al culto dell’apparenza, come avviene nella comica descrizione dell’élite culturale milanese in coda a Fondazione Prada. Sperando che prima o poi operazioni di questo tipo non avranno più bisogno di alcuna giustificazione.
Che meraviglia questo post, mi è piaciuto tantissimo, complimenti. Non avevo mai pensato a questa speciale connessione. "Quello che conta, nella letteratura come nella moda, è avere il coraggio di usare un nuovo linguaggio per raccontare la realtà...". E per raccontare si sè ;-) Grazie per aver condiviso queste riflessioni. Marina
Molto bello, complimenti