Mi piace, lo voglio
Ricevi questa newsletter perché sei iscritto a La moda, il sabato mattina di Federica Salto. Pitch Perfect è uno spin-off che ospita altre firme del giornalismo di moda (e dintorni) e oggi è stato scritto da Irene Caravita che si racconta così: “Il mio primo amore sono i libri, il secondo l'arte. Oggi sono storica dell'arte contemporanea e della fotografia, cresciuta in ambito accademico. Nomade per natura, complice la pandemia mi radico a Milano, città che ha stimolato l'apertura a ventaglio dei miei interessi e della mia scrittura”.
Mi piace, lo voglio
Una mattina, mentre mando giù alcune mail con una tazza di caffè, finisco su un sondaggio di The Cut: We Asked 850 Cut Readers What’s Tasteful and What’s Tacky. In pochi minuti entro in un museo, c’è un focus sull’arte Pop: Andy Warhol tapped into the idea that artwork like food, automobile or film stars, could be produced to specific consumer tastes. Warhol usa la società dei consumi, regno del kitsch. Il pubblico vede le decine e decine di barattoli di zuppa stampati da Warhol e può scegliere quella che preferisce vedere al muro di casa propria, clam chowder o tomato soup? Le opere sono accompagnate da una nota di Dave Hickey, “ideology is fashion anyway, and for the last two centuries most of our bloody global comedies have begun with our inability to distinguish our desires from our tastes” (Pirates and famers, 2013). Riconosco quella sensazione di aver appena letto parole che concretizzano quello che sto pensando, ma meglio.
L’equazione è semplice mi piace=lo voglio=lo compro. Non siamo più in grado di distinguere tra gusto e desiderio di possesso? Nel mondo della soggettività più sfrenata, consideriamo il nostro proprio gusto buon gusto? E nel pieno della globalizzazione, come è possibile che nella sola città di New York ci siano persone che rispondo a “The Cut” che il buon gusto è Audrey Hepburn (i voti di Manhattan) o Rihanna (i voti di Brooklyn)? Fortunatamente sono tutti concordi nel giudicare il gusto di Donald Trump peggiore di quello di Julia Fox. Gusto, non stile. Grande teorico del kitsch, Gillo Dorfles ricorda la nascita di Fiorucci scrivendo che i giovani, nel rifiuto del modo di vestire dei loro genitori dimostrano di non condividere i valori della società in cui sono cresciuti (Moda e modi, 1979). Ciò che è di cattivo gusto improvvisamente viene scelto quale simbolo di una rivoluzione di valori.
“I social media hanno abbattuto le definizioni tradizionali di ciò che è di buon gusto e di cattivo gusto, al punto che qualcosa può essere entrambe le cose o nessuna, a seconda di chi lo chiede, del numero di like che riceve”, scrive Emilia Petrarca su The Cut. Ma se usciamo dai social media, c’è più chiarezza? O siamo immersi nella stessa molteplice, aperta, caotica soggettività? Basta che un oggetto ci piaccia per desiderare averlo addosso no matter what, tanto meno il buon gusto, che è così dipendente da un limitato contesto storico-geografico? Lo stile personale è il buon gusto più condiviso, si dice, ma se oggi ci si stesse rendendo conto che è condiviso appena da una piccola porzione di umanità? Attoniti dall’infinita possibilità di scelta trasformiamo ogni acquisto in atto identitario, che eppure richiede orientamento, guida, influenze. Non ci accolliamo più la complessità di vedere tutto (impossibile!) e poi scegliere, non vogliamo un buon gusto istituzionalizzato, ma abbiamo comunque bisogno di identificarci in piccoli gruppi o community. E quindi se per me è sintomo di buon gusto la Horsebit nera, ma intanto giro con una tote di tela, a qualcun altro piacerà una borsa monogrammata. For Halloween I’m dressing up as GOOD TASTE just to scare Phillipp Plein, twitta @Idesevecouture il 31 ottobre: sono tutte opinion personali.
La mia? Good taste è storicamente Giorgio Armani, la boutique di via Farini a Bologna dove aspettavo mia madre che sceglieva un tailleur, e qui l’unica rivoluzione è che io uso ancora esattamente quegli stessi completi, ben lungi dal potermi permettere i brand che mi piacciono e che acquisterei per me stessa oggi. E così arrivo ad un pensiero che biforca quello di Hickey: non potersi permettere un oggetto non è in fondo un modo perfetto per esercitare il proprio gusto in astratto? Siamo bravi a trovare escamotage perché anche qualcosa che non possiamo avere, sia un abito troppo caro, sia un dipinto blindato alle pareti del Met, diventi nostro: lo fotografiamo e lo postiamo. Una sera al cinema sono seduta dietro un’elegante coppia di mezza età che passa i primi minuti di proiezione con entrambi i cellulari a mezza altezza, fotocamera accesa, pronti a rubare un’immagine del titolo e postarla. Si appropriano, in qualche modo, del film, mostrando al mondo che loro sono lì a vederlo e che ne condividono i valori (si tratta di Il signore delle formiche). Prima di capire dove si sarebbe concluso il loro gesto mi immaginavo invece che avrebbero registrato tutto il film per caricarlo su Cineblog01, e ridacchiavo.
👋🏻 Sono Federica Salto, ho 32 anni e faccio la giornalista. La moda, il sabato mattina è nata il 2 maggio 2020 e ogni settimana propone tutto quello che serve sapere della moda (e anche qualcosa di più). Se vuoi sostenerla e ricevere più contenuti 👇🏻