Ricevi questa newsletter perché sei iscritto a La moda, il sabato mattina di Federica Salto. Pitch Perfect è uno spin-off che ospita altre firme del giornalismo di moda (e dintorni) e oggi è stato scritto da Emmanuelle Maréchal, che si descrive così: «Ho 35 anni e sono una ragazza franco-camerunense trasferitasi nella capitale dell'abito di sposa da quasi un anno. Oltre alla lingua e cultura coreane, mi piace leggere e scrivere storie sull'impatto che la moda ha sulla società e le diaspore nere in Europa. Nella vita lavoro come sub-editor per un retailer di moda di lusso e scrivo ovunque, sul computer, nelle note del cellulare, sui taccuini, e su Naïfs Magazine. E siccome scrivere è la mia passione, a breve uscirà la mia newsletter su Substack. Stay tuned!».
Oltre il mito della parigina
Emmanuelle Maréchal è un nome francesissimo. Da esso nessuno potrebbe immaginare che io sia nata in Camerun e cresciuta in una famiglia mista. Mia madre è nera come me, mio padre francese e bianco, mio fratello meticcio.
Da piccola ho sempre saputo che essere francese e qualcos’altro era possibile. A Douala, infatti, frequentavo una scuola francese con una maggioranza di ragazzi neri, ma convivevo anche con ragazzi dai background diversi. Ho avuto compagni di origini greca, libanese, indiana e congolese. Gli amici dei miei, inoltre, erano camerunensi, maliani, del Ciad, eccetera. C’erano anche famiglie che somigliavano alla nostra. Nonostante questo, non descriverei il Camerun come il paese delle meraviglie dal punto di vista della diversità. Sono consapevole, infatti, che la mia esperienza è figlia del privilegio, perché mio padre era un expat.
Quando avevo 12 anni siamo tornati in Francia, dopo averne passati cinque in quella bolla di diversità, in Camerun. Era il 1999. Non capivo come mai nessuno, dai miei coetanei ai professori, riuscivano a conciliarsi con l’idea che potessi essere francese e camerunense. C’erano incomprensioni sui voti alti che recevevo - perché un Africano è sicuramente meno intelligente di una persona bianca - ma anche incredulità riguardo il mio livello di francese, un trattamento differente quando era mia madre a partecipare alle riunioni di scuola piuttosto che mio padre, ma soprattutto derisioni sul mio aspetto fisico che mi hanno subito fatto capire che non ero nella norma, per loro. È stato un vero shock culturale che mi ha insegnato che la Francia di quegli anni non era in grado di capire che francesità non era sinonimo di essere bianco. Però cosa fa una preadolescente razzializzata di dodici anni in una tale situazione? Elle s'assimile, si dice in francese. Un verbo che odio perché descrive il processo prettamente francese che consiste nel forzare popolazioni immigrate e la loro discendenza a dimenticare le loro radici perché la cultura del Paese deve prevalere su quell’altra colonizzata, come se la missione civilizzatrice non avesse mai una scadenza.
Non mi sono mai rivista all’archetipo della francese, anzi, parigina. Quel modello, spiega Alice Pfeiffer, scrittrice e caporedattrice di Nylon France nel suo libro Je ne suis pas parisienne, éloge de toutes les françaises (Non sono parigina, elogio a tutte le francesi) è «un viso unico, una parigina inventata e incarnata anno dopo anno da personalità che sono la copia carbone l’una dell’altra. Questa parigina coopta la narrazione della moda, e rivela l’assenza di molteplicità nella rappresentazione nazionale». Quando arriva l’apparente democratizzazione della moda grazie a internet negli anni 2010, la parigina sembra diventare una figura più vicina. Prima era un’attrice o una cantante famosa come Brigitte Bardot, Françoise Hardy, Marion Cottillard o Vanessa Paradis. Da lì in poi si chiama Caroline de Maigret, modella e produtrice musicale che pubblica insieme alle amiche Sophie Mas, Audrey Diwan e Anne Berest nel 2014 How To Be Parisian Wherever You are: Love, Style and Bad Habits. Sono quattro ad averlo scritto ma sulla copertina c’è la sagoma distintiva di Caroline de Maigret nella sua divisa rock chic con jeans stretti, blazer oversize, e stivaletti. Sigaretta e caffè completano il look. Lei è la parigina “cool” che ci farebbe quasi dimenticare le origini nobili se non per il patronimico. Le amiche invece non hanno un cognome che tradisce l’appartenenza ad un ceto sociale privilegiato però sono rispettivamente produttrice di film, regista e scrittrice, quindi tutte parigine provenienti del mondo del cinema e delle arti. Ricordo di aver letto il libro ridacchiando. Contiene un mucchio di stereotipi perché è un manuale ironico dell’“arte tipicamente parigina di essere una donna”.
Un’altra figura emersa in quegli anni è l’influencer Garance Doré che nel 2015 pubblica il libro Love.Style.Life. Lei è la tipica francese del sud salita a Parigi “per farcela”. Nata Mariline Fiori, in Corsica, da padre di origini italiane e di madre marocchina, ha un profilo interessantissimo nel panorama, perché non corrisponde allo stereotipo. Apre il libro con una dedica alla nonna marocchina, Tahmament, di cui riferisce: «La nonna era sempre vestita con abiti colorati a stampe audaci che si abbinavano ai suoi lunghissimi capelli rossi tinti con l’henné. Le piaceva vestirsi, ma doveva farlo dentro i rigorosi codici che le erano stati imposti: non mostrare troppa pelle, essere umile». Della mamma invece scrive: «Mia madre è l’opposto. È una donna libera, moderna e vuole che il mondo lo sappia. Indossa jeans stretti, si liscia i capelli e ogni suo outfit è perfettamente studiato». Le descrizioni che dà delle due donne evidenziano proprio l’idea di assimilation culturelle: lo stile della nonna richiama alle imposizioni della tradizione, mentre quello della mamma è libero e moderno, come quello di una certa parigina. La società francese ha insegnato a intere generazioni di persone razzializzate a vedere le loro radici come un qualcosa di esotico. Garance Doré, ancora prima di Jeanne Damas, è sicuramente la francese che è riuscita a costruirsi tutta una carriera sul concetto della parigina/francese. A riguardo, la giornalista di moda Mélody Thomas dice che «la parigina è un archetipo basato sui bisogni del marketing. L’industria usa questa figura per vendere all’estero un certo mito della moda francese». Ed è proprio quello che ha fatto Garance Doré, cambiando il nome e ambientando il suo blog a Parigi, prima, e negli U.S.A., poi.
La parigina è un mito con cui siamo tutte cresciute, ancorata al DNA della Francia. Il punto è che non si evolve con il passare degli anni e, soprattutto, non rispecchia i cambi sociali che ha conosciuto il Paese. Camminando per la città, infatti, risulta chiaro: la parigina è nera, nordafricana, asiatica, desi, e così via.
Io sono nata nel 1987 e cresciuta a Bordeaux, città molto borghese del sud-ovest della Francia. Mio padre ci arrivò per studiare dall’allora poca sviluppata Vendée, regione nota storicamente per aver combattuto per mantenere Luigi XVI durante la Rivoluzione. Nel desiderio di “assimilarsi” - perché il concetto si applica anche alle classi sociali - mio padre ha adottato codici stilistici e culturali di quella borghesia di Bordeaux. Mi ha trasmesso valori francesissimi e borghesissimi che fanno di me un vero camaleonte sociale perché convivono con la mia nerezza e “africanità” che mio padre coltiva dando informazioni a me e al fratello sul luogo da dove viene la mamma. Mi accorgo molto velocemente che non ho modelli a cui rifarmi. All’epoca tra le pagine delle riviste di moda e sugli schermi della televisione non c’è nessuna donna nera francese che può raccontare una storia simile alla mia. Mio padre capisce tutto questo solo quando torniamo in Francia, dopo il Camerun. Pensava di avere solo dei figli, non dei figli razzializzati. Glielo ricorda la società quando non riesce a regalarmi trucchi che corrispondono alla mia carnagione oppure quando scopre che i meticci neri hanno una pelle ultra sensibile che richiede una cura particolare, ma nei negozi non c’è niente per noi. Le sue preoccupazioni mi hanno regalato la sicurezza che ho oggi. Quando a 15 anni decido di lasciare i capelli naturali piuttosto che lisciarli, mia madre è preoccupata, si chiede come farò a occuparmene senza alcun esempio. E in un certo senso ha ragione. Le mie icone di stile di allora sono afroamericane, altro non c’è.
Ho dovuto aspettare fino al novembre 2021 per vedere la cantante francese di origine maliana Aya Nakamura sulla copertina di Vogue France.
A proposito, Thomas rimane cauta: «La questione dell’archetipo estetico della francese che sarebbe una copia carbone della parigina estesa a tutto il Paese è ancora da stabilire. Basta vedere le reazioni negative che Aya Nakamura ha suscitato diventando il volto di Lancôme». Un esempio che si può collegare alle valanghe di commenti ostili suscitati dall’edizione di febbraio 2020 di Vogue Italia, con la modella Italo-senegalese Maty Diba Fall. Seppur non esista un corrispettivo apparato marketing che definisca con regole fisse la donna italiana, tali reazioni fanno capire che l’ideale donna italiana si chiama Mina, Sophia Loren o Monica Bellucci.