Dimenticarsi
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Dimenticarsi
In una notte di fine estate, seduto sulla soglia di un negozio chiuso, schiena contro la saracinesca, ho realizzato di essermi dimenticato di me stesso. Non come capita con le chiavi o il portafoglio sul tavolo di casa, ma come succede con un brutto sogno o un ricordo rimosso.
È passato talmente tanto tempo da quando non compro un paio di scarpe che ho scordato il numero; talmente tanto tempo che non provo un pantalone, da scordarmi la taglia. Questo il pensiero che si insinua nella mia mente, mentre in via Lecco a Milano le persone fanno su e giù distratte per la strada.
Abbasso lo sguardo verso le mie Nike sformate. Sono un modello da donna comprato almeno quattro anni fa in saldo; i pantaloni bianchi li ho comprati poco tempo dopo al mercato della Montagnola a Bologna. Poi più nulla, se non t-shirt monocrome per il lavoro.
Davanti ai miei occhi sneakers, kitten, mocassini, sabot e texani; gonne plissettate e a ruota, pantaloni baggy e a zampa. Voci, tantissime voci. E baci, spinte, saluti. Mi piace starmene nel limbo fisico dell’esserci senza esserci, per sottrazione. Una maniera rassicurante di stare al mondo.
Un pantalone o una scarpa non sono intorno a noi come una lampada o un divano; contengono il nostro corpo, ne delineano i confini, ne svelano i segreti. Sono membrane esterne, ma quanto di più vicino possiamo tollerare. L'abbigliamento appartiene al nostro corpo quanto una protesi. È la pelle che scegliamo, la forma pubblica del nostro fisico che ne influenza la percezione più intima. Anche quando non lo indossiamo affatto.
Scordando le mie misure, avevo scordato il mio corpo. Lo spazio che occupa la mia anima nel mondo.
In Seeing through clothes la studiosa Anne Hollander sostiene che con l’avvento della moda moderna i nudi nell’arte – e quindi nell’immaginario comune – sembrano vestire i fantasmi di abiti assenti. Basta guardare i corpi delle veneri manieriste, modellati da un corsetto mancante, indossato però dalle donne reali nella moda dell’epoca. I nudi diventano corpi svestiti il cui stampo è l’abbigliamento. E i vestiti sembrano proprio comportarsi in questa maniera, come un’orma o un ingombrante non detto.
Una persona non molto tempo fa mi ha detto che sembra che io indossi un’armatura invisibile. Di quelle da parata rinascimentale, fatta all’agemina, dove lo sguardo si perde tra gli intarsi d’oro e d’argento. Riesce a proteggermi dai colpi, ma anche dalle carezze.
Per un periodo della mia vita i vestiti sono stati quell’armatura.
Indossavo abbigliamento pensato e creato per le donne, fatto però per forme non tanto diverse dalle mie. Accostavo quanti più colori possibili. Come all’inizio della primavera 2019, quando dal cappotto lungo fino alla caviglia di Missoni sbucava già lo psichedelico tie-dye che avrebbe dominato quell’estate.
Poi però il mio guardaroba ha assunto tinte sempre più sature, silhouette sempre più anonime, fino a fossilizzarsi in un’uniforme grigia e crudele.
Senza che me ne accorgessi, quello stesso grigiore è filtrato lentamente dentro di me, così in profondità da raggiungere il mio essere più intimo, da farmi allontanare dal mio corpo. E scappando dal mio corpo, sono scappato dalla mia identità.
Siamo abituati a pensare che l’identità sia una e sola, magari anche immutabile. In realtà si comporta più come un organismo vivente: si espande e si moltiplica, segue evoluzioni e rivoluzioni. A volte si perde, abbandonandosi a momenti di assoluto silenzio.
E forse questo non è affatto un danno. A patto che sia la conseguenza di un nostro sentimento e non l’effetto del mondo esterno che ci spersonalizza, magari imponendoci di togliere gli orecchini o di evitare maglie con fantasia sul posto di lavoro; magari obbligandoci a semplificare la nostra identità di genere o le nostre emozioni. Non avere un’identità definita è la maniera più libera di averne una.
Dimenticare le taglie dei miei vestiti, mi ha dato la misura di una nuova dimensione, quella del vuoto. Fisico, identitario, esistenziale. Ma mi ha dato anche la misura della sua energia, l’energia del vuoto. Quella ricchezza popolata da fluttuazioni e possibilità di essere o non essere, anche quando non c’è materia. O quando c’è e si materializza in una scarpa o in un pantalone.