#10 Parliamo del razzismo nella moda, in Italia
Diversamente da quanto uno potrebbe aspettarsi, i fatti delle ultime settimane non hanno dato vita a molte riflessioni sul razzismo nella moda italiana. Io stessa non ho trovato dati affidabili, né sullo stato delle minoranze, né tantomeno sul settore specifico (a parte il manifesto di CNMI). I media e i brand, nei casi più virtuosi, hanno pubblicato selezioni di brand black-owned da conoscere, ma non basati in Italia.
Un pezzo dai toni forti è quello del The Guardian, nel quale Edward Buchanan di Sansovino 6 dice che in Italia sono «Tutti sono pronti a dire: "Oh, abbiamo messo un modello nero o di razza mista in passerella o sulla copertina di una rivista", ma dietro le quinte non ci sono designer o merchandiser neri» e Stella Jean che il suo progetto Becoming dedicato al multiculturalismo è stato in gran parte ignorato dalla stampa italiana. Nel finale Jean parla di un'estrema fatica nell'ammissione del razzismo in Italia ma «questo non giustifica la costante negazione. Un primo passo coerente sarebbe parlare con noi, invece di parlare di noi».
Le parole più interessanti credo siano quelle di Silvia Schirinzi: ha scritto che non possiamo semplicemente copiare e incollare l'idea che abbiamo del razzismo americano e applicarlo a noi, al nostro sistema e alla nostra cultura (così come non possiamo farlo con la nostra idea del razzismo negli altri paesi europei). Che sicuramente un problema c'è se i nostri casting sono più omogenei di quelli delle altre città, se le feste tra addetti ai lavori vanno così, se Miuccia Prada segue un percorso di allineamento e di formazione sull'equità razziale. Ma che è un problema profondamente diverso da quello americano, e finché non ci sforziamo almeno di comprenderlo niente cambierà.
Quindi, se può servire, lo spazio di oggi va alle voci femminili che non abbiamo ancora ascoltato, quelle di ragazze che stanno provando a influenzare la nostra moda con il loro lavoro - scoperte attraverso Kube Community (addio Freeda) e il blog di Tamu McPherson (che non ha bisogno di presentazioni e che ha scritto un lettera aperta da imparare a memoria qui). Ho chiesto loro cosa può fare la moda italiana per essere più inclusiva.
Aida Bodian è nata in Senegal e cresciuta in Italia (ora vive in Francia). Ha fondato NebuaWorld, che è una community digitale dedicata al mondo femminile afro-black, ma anche un brand sostenibile.
«Negli ultimi mesi abbiamo visto un crescente interesse dell’industria della moda nei confronti degli artisti e dei creativi africani in generale. Se da una parte è un segnale minimo di cambiamento dall’altra bisogna vedere in che termini viene sviluppato. Penso che, come in ogni cosa, c’è bisogno di trovare un equilibro. Quando si vogliono creare nuove collaborazioni, nuove interazioni bisogna prestare ascolto, all’ecosistema con cui ci si affaccia, fatto di persone, costumi, senza pretendere di imporre nulla. Spesso ci si identifica come portatori della creatività e del talento puro, è capitato anche a me di fare quel ragionamento, ma in realtà l’Africa è un continente enorme, che non smette mai di stupire, e una volta messo piede nelle sue capitali, si scopre che è culla di una continua e sempre più veloce innovazione».
Faisa è somalo-italiana, indossa l'hijab ed è una content creator.
«Mi piacerebbe vedere una reale rappresentazione della diversità che c’è in Italia nelle sfilate (per quanto riguarda le modelle) e agli eventi dei brand (influencer e creators). Inoltre i marchi di moda potrebbero iniziare a collaborare regolarmente e offrire opportunità lavorative ai numerosi talenti neri e poc italiani».
Michelle Francine Ngonmo è nata in Camerun. Ha studiato Comunicazione Audiovisiva e Lingue a Ferrara ed è la fondatrice di AfroFashion, associazione che annualmente dà vita alla Afro Fashion Week.
«Mi piace pensare che gli anni futuri saranno migliori soprattutto per le persone di provenienza diverse. Non mi riferisco solo alle persone nere. Gli step da fare sono tanti però si potrebbe partire intanto da meno superficialità; finché l’inclusione verrà vissuta più come una tendenza che come una problematica da affrontare, sussisterà il problema. Cosi come la società deve prendere in considerazione il fatto di essere multiculturale, lo stesso deve farlo il mondo della moda. Più persone di origine straniere nell’organigramma delle aziende, durante le sfilate, nelle campagne pubblicitarie, ai vertici seduti al tavolo di chi decide. I veri attori, le persone di origini straniere, devono essere coinvolti in prima persona». Il pezzo integrale è su iO Donna.
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