GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE. Siete 219 in più rispetto a sabato scorso dentro a questa newsletter e quota 1000 non sembra più così lontana (942!!). Io intanto comincio a lavorare al nuovo step, fiduciosa che ci arriveremo 🧡
In fondo alla newsletter tra i link fissi d’ora in poi troverete anche quello dell’Elencone che spero abbiate cominciato a spulciare e che aggiornerò settimanalmente.
Torniamo alle nostre sfilate. Il fashion month è iniziato venerdì 11 febbraio a New York e si è concluso martedì 8 marzo a Parigi, doveva essere quello della vera ripartenza, il primo senza restrizioni (a parte la mascherina obbligatoria al chiuso, ovviamente) e invece è stato quella della moda che fa i conti con la guerra, tra donazioni, chiusure, riflessioni e la sensazione che sia davvero tutto troppo - a tal proposito un consiglio di lettura, la newsletter di Embedded, sempre ricordando che, al di là della fatica, noi siamo comunque quelli fortunati.
Il bello dell’essermi presa qualche giorno in più rispetto al solito per trattare l’argomento è che mi sembra di aver “digerito” meglio la valanga di foto, video, tweet, approfondimenti prodotti da brand, stampa e creator, per cui, al posto della solita panoramica sulle cose più interessanti che si sono viste, andiamo in una direzione diversa che riguarda il sistema, piuttosto che il singolo brand. Esattamente due anni fa eravamo entrati in lockdown solo da una manciata di giorni e ci avvicinavamo alla prima intervista di Giorgio Armani per WWD sul tema del “rallentare la moda”, che poi è diventato il fulcro della conversazione per svariati mesi. Subito prima mi aveva molto colpita un’intervista ad Alex de Betak, uno dei più celebri producer di sfilate al mondo, il quale rifletteva sul fatto che le sfilate andassero ripensate in merito al loro impatto sul pianeta, proprio alla vigilia della pandemia.
Dunque, siamo partiti con un addio alle sfilate, pareva nessuno le volesse più. Poi ci sono stati i mesi interminabili dell’ognuno-fa-quello-che-gli-pare: Pavlovksy (presidente moda di Chanel) dice che loro tornano a sfilare dal vivo appena possono, Michele (Alessandro, direttore creativo di Gucci) si dissocia dalle stagionalità delle collezione e dice addio a Milano, Piccioli (Pierpaolo, direttore creativo di Valentino) viene a Milano per la prima volta, quasi tutti sperimentano con i formati digitali e via dicendo. Lo so, sembrano passati dieci anni, e invece sono solo due. E poi, appena si è potuto, le fashion week sono tornate, esattamente come prima.
Come è successo? Bella domanda, mi ha attanagliata in tutti questi giorni di sfilate. Non ho una risposta ufficiale, ma credo che abbiano influito le pressioni delle Camere della Moda, una logistica già non semplicissima da seguire, figuriamoci quando ognuno sfila per sé e deve così addossarsi tutti i costi per gli ospiti (viaggio, hotel, pasti, regali) e anche un sentimento generale di voler essere di nuovo tutti insieme e, appunto, festeggiare. Manca ancora qualcuno all’appello delle settimane della moda: Jacquemus ha sfilato giovedì alle Hawaii, Burberry ieri a Londra, McQueen sarà martedì a New York.
Peccato che da festeggiare ci fosse pochissimo, visto quello che sta succedendo in Ucraina, troppo grave perché nessuno nella moda (ma nessuno in generale) possa davvero girare la testa e continuare con la propria, favolosa quotidianità. Eppure nessuna guerra ferma il mondo, il paradosso è che le cose vanno avanti, in qualche modo, così anche le sfilate. Raramente in questa parte della newsletter vi segnalo pezzi molto lunghi perché non voglio riempirvi di cose, però vi consiglio di uscire di qui, leggere il pezzo di Arianna Cavallo su Il Post, un punto preciso su come si sta comportando la moda nei confronti della guerra e tornare, in modo da avere tutti i puntini connessi tra di loro prima di proseguire.
E non c’è solo questo. Peccato anche che le sfilate saranno pure tornate esattamente come erano, ma il mondo è cambiato. I vestiti sono diventati irrilevanti. O meglio, i vestiti nel contesto delle sfilate sono diventati irrilevanti. Nessuno oggi si ferma a guardare la sfilata di Balenciaga per capire se Demna abbia proposto tanto nero o tanto denim, se i tacchi delle scarpe siano grossi o sottili. Lo fa, piuttosto, perché lì trova una forma di espressione. La citazione di Balenciaga non è un caso, ovviamente.
Fa specie leggere - nelle note dello show, pubblicate anche su Instagram - la storia del direttore creativo, che è stato lui stesso un rifugiato e che comprensibilmente sta vivendo le notizie di attualità con grande trasporto. Ma fa specie anche sapere che lo show era stato concepito in quel modo (con la bufera di neve e i modelli che arrancano) ancora prima dell’inizio del conflitto, per parlare di crisi climatica, e che abbia funzionato anche per parlare della guerra - «the regular chaos of global catastrophes layered into daily indignities and pleasures is just the state of our world», come ha scritto Rachel Tashjan su Harper’s Bazaar.
Dicevo, le sfilate non sono più il luogo dei vestiti. Qui cito Leandra, non lo faccio mai ma in fondo le voglio ancora bene: «The opportunity on tap with a fashion show today is less about thinking so intently about selling the clothes, or making them the main event but really about using them as an instrument to get a point across». Questo non significa che l’unico modo efficace di fare uno show sia quello di Demna, abbiamo visto nel corso di queste settimane altre prove molto forti in termini di comunicazione, capaci di scatenare empatia e coinvolgimento da parte di un pubblico globale e molto vario.
Valentino e il potere del rosa come elemento onnipresente e quindi del tutto assente, per farci focalizzare sulle forme. Saint Laurent e le donne ai limiti dell’essenzialità, eppure ricchissime. Bottega Veneta e i pezzi più semplici del guardaroba resi preziosissimi con lavorazioni della pelle da far venire i brividi. Gucci e l’estremizzazione del concetto della collaborazione, divenuto mezzo che unisce dopo tante divisioni tra brand come quando lì si stava attenti a non fare le tre strisce troppo simili a quelle di adidas per non andare incontro a problemi legali. Prada e l’esercizio del lavorare insieme alla ricerca di una versione del loro linguaggio maggiormente indossabile. Rick Owens e l’elogio alla bellezza nella sua forma più pura come forma di reazione al male.
“Ma i vestiti erano poco innovativi”. Certo, i vestiti sono quelli. Ed è ormai da un bel po’ che non si inventa niente di nuovo. Sempre più spesso, poi, vedremo designer che propongono dei continuativi sulla passerella. Qualche anno fa sarebbero stati presi per matti e invece ora Peter Do, Chloè, AC9, Marco Rambaldi e non solo fanno da portabandiera a un messaggio fondamentale: non c’è bisogno di cambiare tutto ogni stagione. Oggi l’innovazione vera sta nel comprendere che quei vestiti stanno meglio in uno showroom in cui gli addetti ai lavori possono avere accesso con calma e con un caffè, in un negozio dove provarseli con una bella soundtrack di sottofondo e un professionista che ti assiste davvero nello shopping, in una foto o in un video con una produzione creativa digitale di alto livello. La sfilata, oggi, non è il luogo dei vestiti ma dell’attivismo, della politica, dell’emozione.
Basta, non mi resta che consigliarvi di nuovo le review di Osama Chabbi, a mani basse la mia cosa preferita del fashion month. Le trovate nelle sue stories in evidenza, ci siamo parlati brevemente e si è detto molto felice di avere tanti nuovi follower italiani arrivati da qui la scorsa volta.
Da salvare in agenda: finalmente martedì alle 18.30 io e Silvia torniamo con Sostenibilità Time 🤍 Nella prossima diretta faremo il punto su tutti i grandi temi della moda responsabile, provando a mappare le questioni più urgenti e i passi avanti fatti nel corso di questi mesi. Ci vediamo di là!
PEZZI BELLI DELLA SETTIMANA
Si parla molto di moda inclusiva, poi però comprare online è tutta un’altra cosa, by moi (Vogue) E sempre in tema la bellissima cover di Vogue Portugal
Un pezzo di qualche mese fa assolutamente da recuperare, Robin Givhan in conversazione con Alessandro Michele sui 100 anni di Gucci (Washington Post)
Lo seguite già @stylenotcom, vero? Emilia Petrarca l’ha intervistato (The Cut)
I rincari non riguardano solo il lusso, ma anche il fast fashion (Pambianco, ma vi risegnalo anche un mio pezzo dedicato al tema, su Rivista Studio)
MODA DA GUARDARE, LEGGERE E ASCOLTARE
Non sono una Twitter fashion girl ma sono molto d’accordo con Shelton Boyd-Griffith e, se fate ricerca, passate anche da lì, non solo da IG e TikTok
Il 14 marzo potete sentire Federica Caiazzo che parla di moda in China (Instagram)
Cose che vorrei fare questa primavera, andare a Parigi per vedere la nuova boutique di Dior, 10,000 metri quadrati in Avenue Montaigne 🤩
SHOPPING LIST
12 stili, anzi 12 estetiche del 2022 (Teen Vogue)
Fino al 10 aprile in Rinascente Duomo trovate il pop up store di Talea Studio (al sesto piano!) e fino al 3 aprile quello di Pangaia (al -1!). Vi avevo anche già consigliato il corner vintage di A.N.G.E.L.O. Vintage a cui si sono aggiunti quelli di Cavalli&Nastri e di Madame Pauline e poi la selezione al piano contemporary (insomma, io fan di Rinascente 🤓)
SCUOLA E LAVORO
Se vi interessano temi come l’evoluzione dell’editoria, il personal branding dei giornalisti e il rapporto tra testate e progetti personali l’ultima puntata della newsletter di Brian Morrissey fa il caso vostro (The Rebooting)
Vi ricordo le borse di studio di Accademia del Lusso, fino al 31 marzo
Bottega Veneta cerca un media content project manager, MyTheresa (ancora!) un senior styling editor, Miu Miu un events specialist
Oggi siamo andati un po’ lunghini ma in fondo, quando non lo facciamo? Buona settimana senza sfilate, noi ci risentiamo mercoledì 🦦
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